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venerdì 22 giugno 2012

Corsa campestre

Un monologo teatrale a cui sto lavorando mi suggerisce un pensiero:
iniziare un amore costa fatica e coraggio, implica rischi, mette in gioco paure; cercare e trovare lavoro comportano un grande dispendio di energie; per fare spazio nella propria vita a un nuovo amico quando si è già grandi ci vuole un impegno che con un amico di vecchia data non serve. Eppure sono tutte situazioni che ricerchiamo disperatamente: gli inizi.


Crediamo che la parte difficile ma anche quella più entusiasmante siano l'allenamento e lo scatto iniziale, e poi, quando siamo in campo e dobbiamo correre, ci annoiamo, ci stanchiamo, ci fermiamo ad allacciare le scarpe. Perché?
Perché preferiamo iscriverci a duecento gare, scattare allo scoppio di duecento pistole, piuttosto che completare un unico, lungo, faticoso giro di corsa?
La nostra è una società che ama poco la corsa campestre e preferisce scattare su brevi distanze, è abituata agli inizi, necessariamente costretta alla precarietà, da un lato potenzialmente immortale e dall'altro impaziente come se ogni giorno fosse l'ultimo. Non investiamo su progetti a lunga gittata, siamo flessibili, dinamici, pronti e costretti a trasferirci, a lasciarci, a declassarci, a reinventarci.
Una storia di nove mesi è una storia lunga, anche a quarant'anni; non crediamo nell'amore, sappiamo che finirà. E allora ci avventuriamo per il mondo in punta di piedi, scattanti, ma in punta di piedi; non perseveriamo, mai, perseveriamo solo prima di raggiungere il nostro obiettivo, ma i nostri obiettivi sono tutti qui ed ora: un numero di telefono, un colloquio conoscitivo...
Ci dimentichiamo di alimentare l'adrenalina della partenza, invece di correre passeggiamo, piantiamo nel nostro giardino rose e gardenie, ma durante l'inverno lo lasciamo in balia delle erbacce.
Siamo fatalisti e il fatalismo preclude l'impegno.
Per quel che mi riguarda, mi piacerebbe ogni tanto tagliare anche qualche traguardo.

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